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www.museodelleenciclopedie.it Museo delle Enciclopedie Sede provvisoria: Via Dante Alighieri 12, Castell'Azzara (Grosseto) Il Museo delle Enciclopedie è una istituzione culturale privata fondata dal Prof. Alfredo Mariani, a disposizione di studenti, ricercatori, autori ed insegnanti. E di chiunque ritenga la salvaguardia della Cultura una necessità prioritaria. |
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Il
Prof. Luca Malgioglio in questo suo testo porta alla luce le
contraddizioni ed i malesseri della scuola italiana
contemporanea denunciando un vero e proprio "Assalto alla scuola". Il titolo non è provocatorio ma assolutamente descrittivo di quanto sta accadendo nelle scuole italiane nella quasi totale indifferenza dei loro stessi protagonisti: gli insegnanti, gli studenti e i loro genitori. Indifferenza legata ad incapacità a comprendere, fino invece alla complicità dovuta alla condivisione di interessi da parte degli organi e delle persone che si dovrebbero occupare di corretta informazione. Un volta si chiamava "giornalismo", poi si è definito "media", adesso è rimasto quasi soltanto un indistinguibile vociare di assurdità da parte di chi ha il privilegio dell'accesso ai mezzi di comunicazione di massa, sempre con riferimento alla scuola. Un "privilegio di accesso" che viene abitualmente pagato con la rinuncia alla libertà di espressione da parte di sedicenti intellettuali. Prof. Luca Malgioglio L'assalto alla scuola Dunque, facciamo qualche ipotesi fantasiosa: gran parte
del mondo politico, di cui l’attuale ministero sembra
rappresentare l’incarnazione e la sintesi, porta avanti lo
smantellamento progressivo della scuola pubblica previsto
dall’ideologia liberista (cfr. ad esempio lo splendido saggio
di Mauro Boarelli, Contro l’ideologia del merito,
Bari-Roma, Laterza, 2019); poiché questo smantellamento non
può essere dichiarato come tale, si cercano ragioni ideali
con
cui rivestirlo e mascherarlo; queste ragioni vengono trovate in un
piccolo gruppo di attardata “innovazione didattica e
pedagogica”, che partendo da istanze condivisibili come
quella di
stimolare processi di apprendimento più attivi ed
esperienziali
degli studenti, arriva a una visione settaria e fanatica di una scuola
in cui diventa una grave colpa il fatto che l’insegnante
spieghi
o addirittura insegni qualcosa ai propri studenti. Il totalitarismo
metodologico di questa setta svuota di importanza i contenuti culturali
e il sapere, e trova punti di incontro con la visione tecno-burocratica
delle “competenze”, un fumoso “saper
fare” che
scivola presto in un’ottica produttivistica ed economicistica
(“stimolare
l’imprenditorialità”, le
competenze del “capitale umano”) o nella
formulazione
paradossale delle “competenze non cognitive”
(“adattabilità”,
“affidabilità”,
“saper essere”, “prendere
decisioni” e
“risolvere problemi”: non si capisce come, senza
avere
“cognizioni” e conoscenze). Con questa definizione
insensata – “competenze non cognitive”
– si
punta in realtà a ridurre una scuola che dovrebbe essere
educazione attraverso l’istruzione e la conoscenza (unica
educazione possibile degna di questo nome) ad addestramento, attraverso
la sottrazione programmatica del pensiero, dell’elaborazione
mentale, di contenuti culturali sui quali gli studenti possano
esercitare la propria intelligenza e il proprio senso critico. https://nostrascuola.blog/2021/12/28/la-scuola-minacciata/ |
Il
Prof. Edoardo Gianfagna presenta una attenta riflessione
sull'evoluzione storica del concetto di "trasmissione della conoscenza"
e su come,
nella scuola italiana dei nostri giorni, esso venga sminuito a favore di mai ben specificate "competenze" da parte di non pochi divulgatori o sedicenti intellettuali che sembra perseguano altre finalità da quelle di una didattica centrata sulla promozione e lo sviluppo della Cultura attraverso la Conoscenza.Il Museo delle Enciclopedie apprezza e condivide pienamente il pensiero del Prof. Gianfagna, lo ritiene perfettamente coerente con le finalità di salvaguardia e conservazione della cultura e della conoscenza perseguite dal Museo e si onora di ospitarlo sulle proprie pagine. Prof. Edoardo Gianfagna La trasmissione della conoscenza Una delle cose che più mi colpiscono, da quando si parla della necessità di una nuova didattica, è il contrasto tra la sicumera di coloro che mettono sotto accusa la scuola «trasmissiva» e la modestia culturale dei loro argomenti1. Che cosa è mai la scuola trasmissiva? Corrisponde al semplice, antico bisogno di raccogliere e conservare il significato delle esperienze che altri esseri umani hanno fatto prima di noi. È un’idea semplice, benché impegnativa. Si tratta di conoscere il vissuto degli individui e dei popoli del passato, anche attraverso lo studio delle loro conquiste in campo scientifico, tecnico, artistico e letterario, filosofico e religioso. Lo scopo implicito è quello di esercitare il pensiero critico sulla realtà attuale anche alla luce di quelle conoscenze. Non c’è alcuna vera comprensione senza conoscenza. Non c’è alcuna vera conoscenza – nemmeno di quelle realtà che diremmo recenti o nuovissime – senza la padronanza dei termini, dei concetti e delle idee che il passato ci ha consegnato per farne un uso libero. Non c’è vera libertà senza quel tipo di conoscenza perché, anche quando ci limitiamo a descrivere ciò che abbiamo dinanzi agli occhi, anche quando immaginiamo il futuro, non possiamo che partire dai termini, dai concetti e dalle idee che ci hanno condotto sin qui. I padri desiderano trasmettere ai figli il senso della loro esperienza, vogliono che essi ne facciano tesoro per vivere un futuro il migliore possibile. Dunque insegnano loro ciò che hanno appreso, a proprie spese, raccontano di sé, di ciò che è stato loro raccontato dai padri e dai nonni. Non importa che i figli, presto o tardi, cerchino di ribellarsi ai genitori, di liberarsi di quelle presenze ingombranti e della loro memoria. Anzi; quella ribellione è esattamente il risultato di un'intuizione: vivere portando sulle spalle tutto quel passato, quell'enorme fardello di esperienze dei propri avi è pesante, è un'enorme responsabilità che viene da una visione di sé attraverso il tempo. Le generazioni più giovani sentono che hanno problemi nuovi da risolvere, e che quei problemi si sono configurati nel tempo. Per questo – presto o tardi – avvertono di non poter gettare via il patrimonio di esperienze che è giunto loro dal passato senza pagarne il duro scotto: si tratta di scegliere cosa conservare, e cosa gettare via, cosa migliorare e cosa valorizzare. Solo i superbi negano d’essere stati creati, credono d’essere il principio e la fine della propria storia. Una scuola che non trasmette è una scuola che prepara una società disponibile ad accettare tutto, a far passare qualsiasi cosa, giacché senza storia non c'è nulla cui sottrarsi, nulla da preferire, nulla cui ribellarsi: senza consapevolezza di una continuità o di una discontinuità2 rispetto al passato non c'è nulla a cui appellarsi a riprova delle proprie scelte, nulla che sia peggio e nulla che sia meglio. Sento di poter far mie le parole di Edmund Burke (1729-1797), che scriveva: Ci guardiamo bene dal permettere agli esseri umani di vivere e agire sulla sola scorta dei lumi della propria individuale razionalità, perché sospettiamo che tale scorta sia assai limitata in ogni individuo e che pertanto sia meglio per ciascuno avvalersi del patrimonio generale di esperienza accumulato dai popoli nel corso di lunghi secoli3. Nell’idea di una scuola non trasmissiva, oppure – dato lo stato dei fatti – anche solo meno trasmissiva – è annidato il solito, vecchio, ridicolo eppur pericolosissimo credo secondo cui tutto ciò che ci parla dal passato si può rifare da soli, e meglio di come è stato fatto fino ad ora, senza maestri ed autorità4. Non sto affatto dicendo che le cose che il passato ci affida non possano essere discusse, migliorate e persino rifiutate e superate; sto dicendo che, secondo molti novatori, il progresso individuale e collettivo dovrebbe essere costruito liberandosene poco a poco, quasi si trattasse di una zavorra: non c’è molto altro nella visione di chi porta al parossismo il discorso sulle metodologie didattiche e non spende una parola sui contenuti di studio. Secondo questi novatori si tratterebbe di fare esperienza diretta della realtà per affermare la propria autonomia e sviluppare la propria intelligenza; si tratterebbe di conquistare con le proprie forze e per intero le idee in nome delle quali spendersi. Secondo queste persone l’uomo nuovo non potrà fiorire finché vedrà le cose attraverso le vecchie lenti, cioè continuando a fidare nel magistero di chi ci ha preceduto. Dietro tutto ciò c’è una grande trascuratezza logica. Sfugge l’idea che le conoscenze che giungono a noi dal passato sono a tutti gli effetti una parte della realtà di cui fare esperienza; anzi, esse sono proprio la parte della realtà sulla quale chi desidera sviluppare intelligenza ed autonomia critica può applicarsi con maggior profitto personale e collettivo. *** Proprio come gli altri artigiani o artefici medievali (il carpentiere, il fabbro, il conciatore, il bottaio) il pittore medievale apprendeva il mestiere della decorazione o dell’affresco nella bottega dov’era giunto quasi fanciullo e dove restava per anni a fare apprendistato. In quel luogo egli osservava i gesti del maestro, si cimentava con le prime preparazioni, prendeva confidenza con gli attrezzi, i ponteggi, i leganti, le terre e i pigmenti, ed infine si metteva anch’egli all’opera. Quell’annoso tirocinio non era certo infruttuoso: l’arte medievale comunica per vie segrete un mondo spirituale ineffabile rispetto al quale l’impegno creativo e tecnico non è che una traccia nascosta, talvolta anonima o di bottega, eppur sincera e fedele ai modi di chi non ha affatto a cuore la gloria, ma piuttosto il dissolvimento del proprio sé in Dio. Nella misura in cui l’apprendimento si limitava ad un apprendimento per pura via pratica, l’allievo della bottega medievale poteva essere destinato a replicare il lavoro del maestro, rimanendo al di qua d’una piena consapevolezza circa i significati di cui si faceva portatore, al di qua di ogni discussione teorica. Il maestro di bottega era padrone ed educatore, ma gli apprendisti non ricevevano da lui una vera istruzione. Solo dal Duecento, in centro Italia, alcuni giovani apprendisti, dopo una prima alfabetizzazione in lingua volgare e in latino, venivano avviati presso le scuole d’abaco per imparare la matematica. Quelle scuole erano però destinate soprattutto ai figli dei commercianti. Ogni innovazione introdotta dall’allievo dipendeva da una particolare configurazione di circostanze materiali, attitudini, intraprendenza, spirito d’iniziativa. Tuttavia è bene dire che, tanto nei modi di raffigurare il mondo terreno e spirituale, quanto nell’immagine che l’artista-artigiano aveva di sé, in quell’epoca prevaleva una tendenza alla generalizzazione ed alla tipizzazione della realtà rappresentata. L’allievo poteva certo superare il maestro, ma quel «superare» non era il suo scopo. Come spiega anche lo storico Aron Gurevič, nel Medioevo all’individualità non si dà valore, né la si approva, la si teme e non solo negli altri; l’uomo si guarda dall’essere se stesso. La manifestazione dell’originalità, della singolarità aveva l’aroma di eresia. L’uomo soffriva sapendo di non essere come tutti gli altri5. La formazione che si riceveva in bottega non era finalizzata a far emergere la novità, lo stile o la personalità artistica: si trattava di carpire alcuni segreti dal maestro e di mettere a frutto l’annosa osservazione per poter campare del mestiere. Ogni tecnica presupponeva, come ovvio, una teoria; ma quella teoria, almeno fino alla svolta avvenuta attorno al XIII secolo, non era che il lato trasparente ed inconsapevole dell’opera, tramite la quale si cercava di conseguire una verità superiore. Il salto di qualità, il passaggio dal fare artigianale a quello che oggi chiamiamo «fare artistico» diveniva possibile solo quando il singolo trovava la forza di porre in discussione i presupposti teorici impliciti nel linguaggio che aveva ereditato, che pure poteva produrre ardenti capolavori. La cultura evolve anche attraverso forme d’imitazione che – pur senza volerlo – s’aprono dei varchi nella continuità. Ma, così come il cambiamento può essere fine a se stesso, allo stesso modo l’imitazione può essere sterile6, allorché si verificano gli effetti simili di due errori concettuali opposti: la credenza secondo cui l’introduzione della mera discontinuità possa di per sé costituire un miglioramento; e la credenza secondo cui il mantenimento della continuità possa prevenire l’insorgenza di nuovi problemi. Ciò che accomuna questi errori è, con tutta evidenza, la mancanza di distinzione tipica di un’elaborazione teorica fragile. Ebbene, l’allievo della bottega di fine Medioevo attraversava un momento felice proprio perché sentiva che nella continuità andavano aprendosi spiragli attraverso i quali passavano significati mutuati dal passato, e che quei significati avrebbero potuto aiutarlo nel rispondere ai suoi nuovi problemi. Cominciava ad avvertire che la propria mano, il proprio tratto, il proprio modo di guardare la realtà non trovavano più una corrispondenza davvero soddisfacente negli stilemi appresi dal maestro, che li aveva a sua volta ereditati facendo. Quell’allievo assisteva all’evoluzione dei propri bisogni espressivi, e li scopriva diversi da quelli che aveva transitoriamente fatto propri: essi prendevano forma nel pensiero che accompagnava le sue pratiche consuete, trasformandole dall’interno. Dunque, prefiggersi nuovi scopi, per l’allievo, significava dare vita a un discorso teorico (non importa se tradotto in testo scritto oppure no) cioè a un discorso sui fini ultimi da perseguire attraverso la propria opera. [...] della filosofia teoretica è fine la verità, di quella pratica l'opera7 Non sto affermando che, fino a quel momento, le diverse botteghe medievali cercassero l’omologazione per ragioni estetiche; sto affermando che anche in quei luoghi d’arte, come ovunque a quel tempo, l’esperienza degli esseri umani era finalizzata a compiacere un ordine di tipo ultraterreno (fatto di vocazione, servizio, ufficio) che collocava in secondo piano qualsiasi riflessione su altri scopi: per questa ragione le soluzioni formali ai problemi funzionali ed estetici tendevano a perpetuarsi in una dimensione extratemporale, seppure dotata di fascinazione e potenza. A partire dall’età umanistica in Europa presero piede botteghe d’artefici-artisti capaci di promuovere rilevanti cambiamenti, tentare maniere nuove, andare oltre le regole, anche in ragione delle sopravvenute condizioni socio-economiche favorevoli. Ciò non accadde – lo ripeto – perché il cambiamento era perseguito, ma perché qualcuno era ora disposto ad affrontarlo (con l’incertezza che poteva derivarne, anche rispetto alla committenza) pur di soddisfare i nuovi bisogni espressivi. L’introduzione di tecniche, di strumenti e di materiali innovativi si intrecciò vigorosamente con le propensioni emergenti, assecondò le mutate aspettative: si pensi al recupero della prospettiva8, all’impiego della camera ottica o alla diffusione del colore ad olio a partire dal Nord Europa, che, in fasi diverse, rimarcarono la disponibilità a ripensare il mestiere, affrancandolo grado a grado dalla fissità di una ricerca trascendente, e alimentando una riflessione sull’artista stesso, sul suo ruolo e sui fini ch’egli doveva perseguire. Va da sé che solamente alcuni individui furono disposti a fare quella riflessione. E solo alcuni tra questi divennero anche autori di testi teorici. Dalla prima metà del Quattrocento si diffuse anche la stampa, e con la stampa di alcune opere classiche la cultura ritrovò poco a poco un’organizzazione e una sistematicità ch’erano andate perdute da secoli; molti individui cólti promossero una fruttuosa convergenza tra il sapere umanistico e quello scientifico; vari campi di studio un tempo floridi (come la meccanica o l’anatomia) tornarono a suscitare un vero interesse, ed altri (come l’ottica) recuperarono il peso ch’era andato smarrito. Mutarono in modo radicale i rapporti tra la teoria e la pratica, e le applicazioni tecniche derivanti da conoscenze prima vaghe, o percepite come solo speculative, incisero in profondità nella vita quotidiana. Vaste porzioni del fare artigianale medioevale si trasformarono grazie al crescere di individualità capaci di (cioè atte a contenere) un diverso paradigma creativo, che diede alimento a forme d’arte prima impensate. Le novità non furono partorite da geni isolati, da individui sconnessi dalla realtà storica, oppure da fantasie scaturite per generazione spontanea; neppure dalla stanchezza generata dalla ripetizione. Il dispiegarsi di personalità artistiche indocili o più ricettive non era di per sé sufficiente: erano necessarie anche proposte nuove, diverse condizioni operative, stimoli che mettessero in discussione le vecchie regole. La collaborazione tra gli studiosi umanisti e gli artefici delle botteghe, sostenuta dal simmetrico interesse a migliorare le pratiche attraverso lo studio della teoria e a comprendere meglio la teoria attraverso l’esemplificazione pratica, portò ad accumulare una crescente consapevolezza del debito verso la cultura greca, romana e bizantina. Tra i molti stimoli operanti, lo studio delle opere del mondo antico occupa un posto di assoluto rilievo. Per alcuni rappresentò una luminosa opportunità, per altri – forse – l’inesorabile discesa d’una cortina sulle poche ma grandi certezze del mondo medievale, che tornò a godere di un’adeguata considerazione solo dopo diversi secoli. D’altra parte anche il Medioevo aveva i propri evidenti debiti (verso il mondo greco-bizantino, per esempio): coloro che seppero andare oltre – come Giotto – non peccarono affatto d’ingratitudine, giacché non rinnegarono i propri debiti palesi; accettarono piuttosto di contrarne altri. Ecco, l’Umanesimo e il Rinascimento contrassero un nuovo rilevante debito tecnico ed ideale verso splendenti civiltà che fino a due secoli prima apparivano sepolte per sempre. Il rapporto tra l’artefice (o l’artista) e l’antichità differiva in modo sostanziale da quello – pur forte e reale – dell’allievo con il maestro della bottega medievale, di cui il primo poteva emulare per anni lo stile e le soluzioni formali. Nel Medioevo il linguaggio pittorico era appreso per assimilazione, per immersione immediata nell’ambiente di lavoro. L’artista assorbiva l’espressività e la simbologia di quella «scuola» sulla scorta di una pratica che, di per sé stessa, non esigeva ch’egli incarnasse un ruolo intellettuale pienamente critico. Durante il Rinascimento crebbe invece, un po' ovunque in Italia, una vera e propria autocoscienza estetica, promossa anche attraverso la stesura di opere di carattere teorico9. .C’è un aspetto, di questo processo di intellettualizzazione dell’arte e delle tecniche artistiche, di cui forse anche a scuola si parla poco; eppure fu centrale nella determinazione della mentalità rinascimentale. L’artista – posto di fronte alle opere antiche – era chiamato a riconoscere e ad ammirare un equilibrio razionale estraneo alle idee codificate nella pratica corrente; provava una sublime fascinazione, generata dall’impossibilità di immergersi in modo immediato in segni che percepiva come lontani e purtuttavia internamente coerenti, dotati di ragioni profonde rispetto a cui non poteva dirsi estraneo. All’artista medievale era sì possibile colmare la distanza che lo separava dalla cultura antica con la quale cercava di entrare in contatto: ma solo a costo di un vero sforzo di mediazione ed astrazione intellettuali (si pensi al caso di coloro che studiarono la grammatica latina e greca per attingere alle fonti originali, scavalcando la mediazione dei traduttori; oppure a coloro che si interessarono all’archeologia per avvicinare quel mondo lontano). Quello sforzo rivolto a comprendere ciò che era lontano e diverso preludeva sovente alla radicale messa in discussione delle regole e degli stilemi consolidati: perché conoscere davvero l’alterità ci interroga in profondità. L’apprendimento per immersione, alimentato d’emulazione pratica, è immediato, tende alla replica10dell’altrui pensiero, spinge alla conformità più che alla varietà; lo studio teorico di ciò che ci è estraneo incoraggia l’atteggiamento di ricerca, rinforza il dubbio e la mediazione nell’elaborazione intellettuale. Dunque, in virtù dell’incontro con quella cultura trasmessa da un mondo passato, i letterati e gli artisti del tardo Medioevo iniziarono a cimentarsi in modo sistematico con idee e forme alternative a quelle correnti: anche così la pittura, la scultura e l’architettura diluirono il loro carattere replicativo, si fecero pratiche pensate, capaci di dar luogo ad una ricca fioritura di espressioni individuali11. Alcuni mestieri artigianali acquisirono uno statuto autonomo. L’introduzione di un cospicuo momento interpretativo all’interno di quel complesso di conoscenze risalenti ad un’epoca lontana, moltiplicava gli interrogativi e, di conseguenza, anche le chiavi di lettura da utilizzare per comprendere il presente. La società medievale, che fino ad allora era stata severa, spesso monolitica o addirittura dogmatica, e che, in conseguenza di ciò, aveva sovente affidato a linguaggi ripetitivi, rassicuranti ed anonimi (cioè non autoriali) la rappresentazione dell’uomo, si mise in ascolto della varietà di voci animate dalla rivitalizzazione della cultura antica. Lo storico Gurevič illustra in modo esemplare questo potente processo di rivitalizzazione ricorrendo allo stravolgimento di un’espressione evangelica: «nei vecchi otri si cominciava a versare del vino nuovo». La sua lucida analisi si sofferma anche sulla vicenda paradigmatica di un predicatore del XIII secolo, tale Bertoldo di Ratisbona. Questi, capace di adunare immense folle di fedeli, impiegò ripetutamente la famosa parabola dei talenti12per sviluppare e proporre, nel corso degli anni, idee innovative su come dovesse essere un buon cristiano. Le idee che espose a più riprese erano sì il risultato di una ricerca valoriale indefessa, tuttavia erano anche il portato dell’esegesi di un testo evangelico di valore morale senza tempo, dal quale l’anelito religioso di Bertoldo aveva tratto continua ispirazione. Attraverso quelle idee, come attraverso molte altre idee in via di gestazione ed elaborazione, si delineavano poco a poco i caratteri peculiari dell’individuo, cioè di un’entità che andava rivelandosi a se stessa, addensando tratti di tipo psicologico e morale che prima apparivano vaghi ed imprecisi. Allora anche l’interpretazione e l’attualizzazione tardomedievale dei testi sacri – come avvenne con il recupero dell’arte classica – consentì, in questo come in altri casi, di guardare alla realtà umana con occhi mutati: nemmeno l’impegno di uomini di grande fede, o di grande creatività, sarebbe di per sé bastato a produrre simili rivoluzioni antropologiche se il passato fosse stato liquidato, o considerato oggetto d’interesse marginale; se non fosse esistita la ferma convinzione che la sopravvivenza del passato avesse delle precise ragioni, e che quelle ragioni dovessero essere approfondite, riportate a una significatività attuale. I predicatori medievali hanno posto accenti propri su quelle sfumature e su quelle evoluzioni del pensiero dei loro predecessori che erano loro più vicine e che, più delle altre, rispondevano alle richieste del loro tempo. Ciò nondimeno, in questo caso [...] ci siamo imbattuti in una reinterpretazione profonda, radicale, del contenuto della parabola evangelica, che viene riempita di un significato completamente diverso. Sotto il velo di un’esegesi tradizionale delle Sacre Scritture viene proposta una nuova concezione dell’uomo13. Questa digressione in campi all’apparenza lontani dalla scuola fornisce, a mio modesto parere, un utile insegnamento a suo riguardo. Lascia cioè intendere la dannosità dell’attuale insistenza sul momento pratico degli apprendimenti a danno del momento teorico, che è stata agevolata proprio dall’irragionevole credo dei nemici della trasmissione della conoscenza: infatti è più facile proteggere e conservare i vuoti gesti anziché la consapevolezza del loro significato14. L’insistenza sulla pratica fece la sua comparsa nell’universo pedagogico diversi decenni fa, e in seguito si ripresentò celandosi all’interno dello sgangherato cavallo di Troia delle «competenze»15. Ma finché non si affermerà senza ipocrisia che la scuola non ha il compito di formare il pensiero critico e che deve limitarsi ad addestrare un lavoratore che sappia ben ripetere una serie di istruzioni (questo, tra l’altro, non è affatto il lavoratore di cui ci sarà davvero bisogno – aggiungo – bensì quello che ora appare nelle previsioni dei bisogni, in un evidente errore storicistico) allora l’insistenza smodata sulla pratica perpetuerà la propria offesa verso l’intelligenza. Nel caso della tradizione liceale, poi, l’accento programmatico sulla competenza rasenta l’assurdo poiché .sottintende che, prima dell’era del «saper fare», coloro che uscivano da quelle scuole non erano che individui destinati al fallimento professionale. Ogni sapere pratico ha in sé una teoria che lo sostiene e, proprio per questo, può rivelarsi utilissimo nella comprensione di quest’ultima. Tuttavia, quando il momento teorico è trascurato oppure resta implicito, le sole conoscenze pratiche finiscono col favorire la ripetizione pedissequa di schemi e metodi, almeno finché il loro presupposto teorico non è falsificato, corretto, rimpiazzato o stravolto da qualcuno che se ne occupi ponendosi su un altro piano. Non è affatto vero che la pratica e la teoria non interagiscono tra loro, giacché possono farlo con profitto; eppure è senza dubbio vero che, se la teoria senza pratica è impotente, la pratica senza teoria è cieca. Tornare a dare valore al momento teorico e a ciò di cui esso si nutre, nelle scuole e nelle università, è l’unico modo in nostro possesso per imparare a distinguere le migliorie dai cambiamenti infruttuosi, liberandoci dalla malattia nuovista che esorta da troppi decenni ad affrontare la ridda dei mille problemi italiani – in ogni ambito civile – ricorrendo ad uno sgradevole guazzabuglio di attivismo e praticismo, conditi con il desiderio di rottamare quanto proviene dal passato per ricominciare da zero; quasi che il bisogno di agire, e di gran lena, rendesse indispensabile l’eliminazione d’ogni indugio intellettuale, d’ogni analisi e riflessione di senso compiuto, come fossero una zavorra. La difficoltà è esattamente questa: far comprendere ai cosiddetti nuovisti l’apparente paradosso per cui una scuola davvero viva, e dunque mobile e solidale con la società, è una scuola che si rapporta al patrimonio di conoscenze trasmesse dal passato sapendo di dovere ogni volta ripartire proprio da lì, perché è nello sforzo di comprensione di ciò che non possediamo al meglio, di ciò che è cambiato, di ciò che siamo stati capaci di fare ed essere, che noi usciamo da noi stessi e ci vediamo per quello che siamo, nelle nostre reali potenzialità e nelle nostre miserie. Note 1 Un campionario di questa diffusissima mentalità si trova al sito <http://www.democraziaoggi.it/?p=4378>, dove è pubblicizzata un’iniziativa del CIDI, un’importante associazione nazionale degli insegnanti di ogni ordine e grado. Credo che uno degli esponenti più illustri di questo modo di pensare sia stato Luigi Berlinguer, che fu anche ministro della Pubblica Istruzione dal 1996 al 2000. 2 La consapevolezza della propria discontinuità rispetto al passato non equivale affatto alla trascuratezza del proprio passato. 3 In Riflessioni sulla
Rivoluzione francese, trad. it., in Scritti politici, Utet, Torino, 1963,
pag. 257.
4 L’antesignano più illustre di questo desiderio d’azzeramento in educazione è Jean-Jacques Rousseau (1712-1778), il quale – insofferente in modo patologico alla modernità – aveva ereditato la vocazione a far tabula rasa attorno all’individuo dalla filosofia di Platone (come fu ben descritto da K. R. Popper ne La società aperta e i suoi nemici) e l’aveva poi coniugata con un sensismo ingenuo ed irrazionalistico. I suoi eredi furono molteplici e molto influenti. Qui vale la pena ricordare che questa influenza operò su due fronti diversi, per così dire opposti: da un lato agì su una parte della cultura di sinistra interessata a recuperare illustri antecedenti al pensiero politico-economico di K. Marx (per l’estero ricordo almeno Luis Althusser; per l’Italia menziono gli studi di Galvano della Volpe, Lucio Colletti, Mario Dal Pra, che alla lunga – purtroppo – contribuirono alla marginalizzazione dell’illuminata visione della scuola di Antonio Gramsci); dall’altro lato agì su John Dewey e, benché di rimando, sull’idea di scuola dibattuta negli Stati Uniti (sul rapporto di continuità tra la pedagogia di Dewey e quella di Rousseau suggerisco la lettura di Henry T. Edmondson, John Dewey And The Decline Of American Education, Isi books, 2006). 5 Aron Gurevič, La nascita dell’individuo nell’Europa medievale, Laterza, Roma-Bari, 1996, p. 228. Alle pp. 226-227 si legge pure «gli autori medievali non si stancano di ricorrere all’aiuto di forme di raffigurazione dell’uomo sussunte dalla tradizione, ereditata in particolare dall’antichità [...] allo stesso modo si comportarono anche i pittori e gli scultori medievali: re, imperatori, papi, prìncipi, padri della Chiesa, santi, negli affreschi, nelle miniature dei libri e nelle sculture, sono del tutto privi di individualità vitale, benché siano forniti di tratti che ne esprimono lo status sociale, politico o spirituale». La persona cercava insomma realizzazione nella subordinazione del proprio io al prototipo offerto. 6 Per questo ed altri aspetti del tema qui trattato suggerisco la lettura del breve saggio di Paul Oskar Kristeller Creatività e Tradizione, pubblicato sul «Journal of the History of Ideas», XLIV, 1983, pp. 105- 113 (tradotto in italiano come Postfazione al libro Il pensiero e le arti nel Rinascimento, Donzelli, 1998) e riportato anche nella sezione di raccolta testi di <https://anticitera.org>. 7 Aristotele, Metafisica, libro II, 1, 993b, 20-21, qui nell’edizione a cura di Giovanni Reale, Edizioni Vita e Pensiero, Milano, 1993, vol. II, p. 73. 8 Per tutto questa sezione invito alla lettura di: Lucio Russo, Emanuela Santoni, Ingegni minuti, Feltrinelli, Milano, 2010, pp. 66-139. Lo studio, tra le altre cose, affronta la questione del debito rinascimentale verso il mondo classico proprio per quel che concerne la prospettiva. 9 Si veda almeno Anthony Blunt, Teorie artistiche in Italia. Dal Rinascimento al Manierismo, Einaudi, 2001 10 Si pensi a come un infante o un migrante adulto che non frequenti una scuola apprendono le nuove strutture linguistiche: prima di raggiungere un certo controllo, prima d’essere consapevoli, creativi e flessibili sul piano dell’espressività essi impiegheranno molti anni. Solo lo studio della grammatica (cioè del momento teorico) può accelerare la crescita espressiva e – insieme – ideativa del parlante, che altrimenti tenderà a servirsi di locuzioni trite, forme idiomatiche rigide, prive di sfumature. 11 Non per caso possiamo far risalire al primo Rinascimento anche la graduale separazione tra arti maggiori ed arti minori (o applicate) nel noto rapporto gerarchico che riprendeva e modificava la precedente divisione tra arti liberali e meccaniche (o mestieri). Nei fatti, le arti applicate si trovarono prive di un sostegno teorico di rilievo, almeno fino all’epoca industriale. Sull’argomento si veda l’ottimo lavoro di Ferdinando Bologna Dalle arti minori all’industrial design, Laterza, Bari, 1972. 12 Matteo, 25, 14-30. 13 Aron Gurevič, Ibidem, p. 202. 14 Rousseau stesso, nemico giurato del sapere libresco e degli studiosi, affidava alle esperienze concrete lo sviluppo dell’intelligenza del suo Emilio. 15 Non è affatto trascurabile il fatto che oggi, in ogni ordine di scuola, sia fortemente promossa da dirigenti e pedagogisti la cosiddetta "programmazione per competenze". Per leggere l'articolo sul sito di prima pubblicazione: https://anticitera.org/2019/09/15/la-trasmissione-della-conoscenza/ |
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